Il tema che fa da spartiacque tra l’antica filosofia di Socrate ed il messaggio cristiano non è l’immortalità. Questa era già conosciuta da Socrate. Non c’era bisogno della rivelazione per parlare di immortalità, per accorgersi che nell’uomo c’è qualcosa di eterno, perenne: l’anima. Ciò che però realizza questo “salto” è la risurrezione, che riguarda la persona nella sua interezza; non solo il suo corpo. La morte coinvolge tutta la persona, e tutta la persona è coinvolta nella risurrezione. Noi non preghiamo l’anima dei santi; preghiamo la loro persona.
Il nostro destino, dal punto di vista della nostra fede, è il destino del risorgere, e ciò significa che ciò che abbiamo vissuto, ovvero la nostra storia, la portiamo con noi.
Ciò che facciamo, lo facciamo sempre anche con il nostro corpo. Anche il pensare sarebbe impossibile senza il cervello, benché il pensiero non si riduca ad esso. Eppure il cervello è la base fisica necessaria all’atto del pensare. Dunque anche i corpi saranno giudicati, come disse Paul Claudel. Questo è talmente paradossale che quando Paolo di Tarso, all’Areopago di Atene, di fronte ai pensatori dell’epoca, disse che Gesù è risorto e che quindi anche noi risorgeremo, la reazione dell’uditorio fu di totale rifiuto. Il fatto che, dopo la metamorfosi della morte l’uomo risorga, e risorge con il corpo, costituisce un paradosso, una sfida per il pensiero filosofico e per la ragione. Ecco perché Paolo, con i Corinzi, era molto preoccupato per il fatto che vivessero una profonda crisi di fede derivante dalla loro interpretazione letterale della profezia di Gesù per cui «non passerà questa generazione prima che tutto avvenga» (Lc 21,32). Nelle chiese protocristiane era molto diffusa l’idea della parusia imminente, ovvero l’idea che il Signore sarebbe tornato da un giorno all’altro trasformando i vivi e facendo risorgere i morti. Eppure i cristiani cominciano a morire, e la comunità dubita. Paolo allora li esorta, e lo fa scrivendo che «se non esiste risurrezione dai morti, neanche Cristo è risuscitato!» (1Cor 15, 13). Dubitare della risurrezione dei morti significa dubitare della risurrezione di Cristo, e se Cristo non è risorto la nostra fede è vana.
Cristo, nella risurrezione, subisce una metamorfosi che lo fa passare attraverso la morte, la solitudine e l’abbandono radicale: il Crocifisso vive l’abbandono di Dio. E tuttavia, mentre è abbandonato, si abbandona: «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23, 46).
Nel Testamento di Tito di Fabrizio De André, canzone che riguarda un ladrone che passa in rassegna tutte le prescrizioni della legge e ammette di averle trasgredite tutte, si trova, alla fine, a dire: «Io nel vedere quest’uomo che muore, madre, io provo dolore. Nella pietà che non cede al rancore, madre, ho trovato l’amore».
Nel libro Morte di Eberhard Jüngel, l'autore sottolinea due elementi illuminanti: la morte è l’apoteosi dell’irrelazionalità, ovvero della solitudine. La morte è l’ultima solitudine, è la fine della relazione.
Noi ci siamo molto drammaticamente commossi per il fatto che durante la Pandemia molte persone siano morte senza poter ricevere il saluto dei propri cari, ma anche chi lo ha ricevuto, comunque è morto solo. Sempre De André, ne Il Testamento cantava: «Cari fratelli dell'altra sponda, cantammo in coro giù sulla terra, amammo in cento l'identica donna, partimmo in mille per la stessa guerra, questo ricordo non vi consoli, quando si muore si muore soli». Di fronte alla cupa signora di Samarcanda sei da solo, anche se intorno a te ci sono i tuoi cari, perché sei tu che muori, sebbene loro partecipino con la loro vicinanza.
Jüngel si chiede cosa dia senso a quest’ultima solitudine, e risponde: l’amore della morte di Cristo. Solo l’amore può vincere la morte; solo l'amore può andarvi oltre. Già il Cantico dei Cantici scriveva che «forte come la morte è l'amore» (Ct 8, 6). Il cristianesimo dice che più forte della morte è l’amore, e questo è testimoniato dalla Resurrezione di Gesù.
Anche Pascal esortava a non preoccuparsi della compagnia dei propri simili, perché si morrà soli. Questa solitudine riceve un senso nella misura in cui si ama, ma si può amare al momento della morte se si è amato nella vita, cioè se la propria vita è stata un esercizio di amore autentico e incondizionato, che poi è il motivo per cui siamo nati.
Alla redazione di Famiglia Cristiana, tra le altre, domande, è arrivata questa: «Il credo recita: “di nuovo verrà a giudicare i vivi e i morti”. C’è quindi un secondo giudizio? Dopo la morte l’anima va all’inferno, in purgatorio o in paradiso (solo i santi). Così mi hanno insegnato. Se questo è soltanto un primo giudizio, non è quindi definitivo. Nell’intervallo fra i due giudizi che cosa fa la nostra anima?». La mia risposta è: quella che noi chiamiamo “escatologia intermedia”, ovvero ciò che accade dalla morte alla fine del mondo, altro non è se non il periodo tra la prima venuta di Gesù e la seconda venuta del Signore.
In un’altra domanda, dopo aver letto il libro Alla fine il nulla? di Gerhard Lohfink, un lettore chiede: «È vero che c’è una risurrezione e una purificazione nella morte? E cos’è la fine del mondo?». Lohfink alla fine del suo libro scrive che quando si muore il mondo è finito. Dire «prima» o «dopo» è banale, perché nell’eternità non c’è un prima e un dopo. C’è quello che la famosa filosofa Ágnes Heller chiama «l’eterno presente».
Nel momento in cui dobbiamo accedere al mistero di Dio si dà la necessita di una purificazione, ma questa non può essere calcolata in secoli. È un istante.
Per concludere, rimando ai numeri 10-11 della Spe Salvi di Benedetto XVI:
«Dice il Padre della Chiesa Ambrogio nel discorso funebre per il fratello defunto Satiro: “[…] L'immortalità è un peso piuttosto che un vantaggio, se non la illumina la grazia”. Già prima Ambrogio aveva detto: “Non dev'essere pianta la morte, perché è causa di salvezza...”»
L’immortalità può essere un peso nella misura in cui la pensiamo come un prolungamento di questa esistenza, e non invece come una trasformazione, come un qualcosa di nuovo. Però, con Agostino, che Benedetto XVI amava molto, aggiunge: «Non conosciamo per nulla questa realtà; anche in quei momenti in cui pensiamo di toccarla non la raggiungiamo veramente. “Non sappiamo che cosa sia conveniente domandare”, egli confessa con una parola di san Paolo (Rm 8,26). Ciò che sappiamo è solo che non è questo». Dell’immortalità sappiamo più ciò che non è, che ciò che è.
«“C’è dunque in noi una, per così dire, dotta ignoranza” (docta ignorantia), egli scrive. Non sappiamo che cosa vorremmo veramente; non conosciamo questa “vera vita”; e tuttavia sappiamo, che deve esistere un qualcosa che noi non conosciamo e verso il quale ci sentiamo spinti».
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