O Re delle genti,
atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare che riunisci i popoli in uno,
vieni, e salva l’uomo
che hai formato dalla terra
atteso da tutte le nazioni,
pietra angolare che riunisci i popoli in uno,
vieni, e salva l’uomo
che hai formato dalla terra
«Sollevate, porte, i vostri frontali, alzatevi, porte antiche, ed entri il re della gloria. Chi è questo re della gloria? Il Signore degli eserciti è il re della gloria»1. Le porte di cui il salmo parla sono le porte del Tempio di Gerusalemme in cui il salmista immagina l'ingresso trionfale del re, il Signore. È dal Tempio, dall'atrio degli olocausti che entrerà il Signore a prendere dimora con la sua gloria nel tempio, nel santo dei santi, siederà come sovrano sullo scranno dell'arca.
Il lettore, se vuole ben comprendere cosa s'intenda qui per «re», dovrà soffermarsi un po' sotto i portici degli atri del tempio, respirare l'aria densa di speranza e attesa e capire cosa si animava e cosa muoveva i cuori di qui giudei che si recavano davanti alla cortina ad adorare il creatore del mondo.
Già altrove si è parlato di questo luogo. Il cuore dell'intera spiritualità d'Israele è costituito dal Sancta sanctorum e da quello che contiene, e nonostante l'arca sia l'oggetto principe del Tempio e attorno a questa ruoti tutto l'apparato liturgico essa non è che un oggetto.
La sua descrizione è riportata in maniera molto dettagliata (segno della sua importanza): costituita fondamentalmente da una cassa di legno, un'arca appunto, d'acacia, lunga due cubiti e mezzo e alta un cubito e mezzo. Un oggetto relativamente piccolo, nulla di particolarmente impressionante.
L'arca è precedente al tempio, ed è il motivo per il quale il tempio esiste.2
L'elemento che realmente interessa la nostra indagine è il coperchio poggiato sulla cassa, elemento questo che non funge da mera guarnizione o da chiusura e che, pur trovandosi a costituire con questa un solo oggetto, ne è comunque distinto. Si tratta del propiziatorio. Questo l'oggetto che costituiva appunto il coperchio dell'arca; con molta probabilità in origine non era altro che una semplice lastra di metallo, in oro puro, di forma rettangolare e corrispondente millimetricamente alle misure della cassa sottostante, con l'aggiunta funzionale di un'orlatura a forma di ghirlanda, utile a tenere fermo il coperchio durante i viaggi, quando la tenda dell'alleanza si muoveva insieme all'accampamento degli israeliti.
Il nome ebraico del propiziatorio è kapporeth, reso dai Settanta quasi sempre con ἰλαστήριον3 (ilasterion) e dalla Vulgata con propitiatorium. Abbiamo qui uno di quei casi in cui tradurre significa tradire, tant'è vero che, se quella del propiziatorio fu la via imboccata da Girolamo, sia Filone prima che Giuseppe Flavio poi, come del resto la stessa versione della Settanta seppur in maniera assai limitata, lo resero con il termine ἐπίδημα (epidema).
La prima traduzione, quella di espiatorio, tiene conto della centralità rituale di quest'elemento e sceglie cioè di derivare la traduzione dal pi‛el della radice kpr; se dunque il senso è quello di espiare si avrà necessariamente il corrispettivo espiatorio e non già di propiziatorio, cosa che invece è avvenuta. Se questo termine mantiene, seppur nella sua inadeguatezza, un certo quid che va oltre al senso meramente funzionale (cosa che non sembra essere mantenuta dalla traduzione greca di ἐπίδημα), sembra comunque che questa espressione non renda il preciso scopo dell'Arca che non è quello di propiziare.
L'ulteriore arricchimento ornativo del coperchio dimostra la sua funzione reale, lo svela per quello che gli israeliti credevano fosse.
Ai lati di questo si trovavano due figure in forma di cherubino di nuovo realizzate in oro puro e formate tutte in un pezzo col propiziatorio, un tutt'uno inscindibile da questo dunque. Queste due figure angeliche erano rivolte verso di loro e munite di ali stese ad adombrare il propiziatorio, verso il quale erano anche inclinate le facce delle due figure. Figure in atteggiamento orante, prostrate ad adombrare l'arca. Un arricchimento tanto elaborato di un elemento tanto semplice non può passare inosservato e similmente in un oggetto in cui ogni elemento risponde alla mera funzione di contenitore: perché mai, ci si domanda, ornare in modo così sovrabbondante il coperchio di una cassa senza alcuno scopo apparente?
Se si interroga il testo si scopre ben presto che l'arca non è un'arca o meglio non solo. L'Arca era per gli Israeliti il centro del culto divino, come si è già detto, ma questo non è propriamente vero. Un esempio di cos'era per Israele l'arca ci è dato dal regno di Giuda. Dopo la divisione del regno da parte del re Geroboamo vennero eretti a Betel e Dan due santuari concorrenti che dovevano competere ed evitare agli abitanti del regno del nord di recarsi a Gerusalemme. Entro i due recinti si trovavano le immagini scolpite di due tori. Molti critici e storici notano rilevanti affinità fra queste due sculture e quelle delle divinità del medio oriente, in particolare con El, cavalcatura taurina e con Ras-shamra; il dio Baal steso è raffigurato nell'atto di cavalcare un toro.4 Le figure di Betel e Dan appaiono come cavalcature private di cavaliere. L'intento di Geroboamo era dunque quello di riproporre un cliché sacro noto a tutti nella zona, ma volendo evitare di mettere davanti agli occhi di ebrei, seppur non pienamente ortodossi come i cugini del regno del sud, divinità straniere, una volta eliminata la divinità sovrastante, e far scolpire i tori; ma non sono i tori il centro dell'attenzione bensì quello che hanno sopra: i tori non sono che lo sgabello dei piedi dell'altissimo. Con ogni probabilità Aronne agì similmente quando dette un dio al popolo impaziente. Stessa cosa va detta per l'arca. Di fatto è attestato presso le popolazioni del Medio e vicino Oriente un simile atteggiamento: in Egitto le statue delle divinità erano condotte in processione su barche rituali ed è attestato altresì l'uso di depositare, presso queste stesse barche, contratti ed accordi a titolo commerciale e politico ai piedi delle divinità; come a voler fare di quest'ultime gli ideali garanti delle due parti.
Secondo la Bibbia il propiziatorio, e più esattamente lo spazio fra le ali dei due Cherubini, era il luogo ove era assiso Jahvè, Dio5; ivi Dio appariva nella nube6 e parlava a Mosè7, Aronne; Giosuè, etc. In altri passi l'Arca è detta lo sgabello dei piedi di Dio8. Non stupisce allora che il testo dell'accordo tra Dio ed il suo popolo sia posto – come proprio per gli egizi – ai piedi di Dio medesimo; e proprio – nuovamente come per gli egizi – in quella che è un'arca.
L'arca è il trono, Dio il Sovrano. Re potente in battaglia, che vince i suoi nemici.
Il “sensus plenior" del Salmo 23 è quello che riempiva i cuori dei fedeli diretti a Gerusalemme, di coloro che ascendono al Moria, sulla rupe di Sion, al monte santo, «Alzate, o porte, la vostra fronte, alzatevi soglie antiche, ed entri il re della gloria». Entri il «Signore valoroso in battaglia» che siede sull'arca della sua legge, entri colui che ci ha condotto nelle tenebre in terrà d'Egitto.
Già altrove si è detto che la liturgia e la scrittura ci insegnano a leggere la schiavitù dell'Egitto come simbolo delle tenebre del peccato. Ora contro le tenebre in cui l'uomo si è gettato ubbidendo a Satana occorreva che Il Sovrano dell'universo stendesse il suo braccio potente e ci guidasse riscattandoci da quell'orrido in cui ci eravamo precipitati.
Il primo verso dell'antifona introduce il tema della regalità, così diffusa nella sensibilità ebraica. Si legge nel libro di Geremia: «Chi non temerà te, o Re delle nazioni ? A te solo questo è dovuto: fra tutti i sapienti delle nazioni e in tutti i loro regni nessuno è simile a te»9. Geremia oppone qui il potere di Dio, vero e certo, a quello degli idoli dei popoli pagani. Aggiunge infatti riferendosi al Signore che «non c'è nessuno come lui». Notiamo che il brano da cui abbiamo tratto il testo per rintracciare l'origine dei primi versi dell'antifona è con ogni probabilità l'origine dell'intero componimento. Si tratta di un capitolo in cui si trovano tutti i testi delle antifone: «la casa di Israele»10, l’idea del segno «segni dal cielo»11, la «sapienza» e la «prudenza»12, la «chiave», nella forma del piolo, «i paletti della mia tenda»13. Non è quindi da escludere che, ragionando su questa pericope, il compositore delle antifone abbia strutturato l'intera sua opera. Lo stesso formulario rintracciato in Geremia si ritrova nell'Apocalisse di Giovanni, nel Canto dell'Agnello, «Grandi e mirabili sono le tue opere, o Signore Dio onnipotente; giuste e veraci le tue vie, o Re delle genti!»14.
L'espressione non ha un particolare valore messianico né in Geremia, dove esprime certo il credo d'Israele ma senza segni d'una attesa imminente, né nel testo greco di Apocalisse, in cui è utilizzata probabilmente ricalcando i sentimenti espressi in Geremia e quindi più col senso di un epiteto del Dio unico.
Il senso di attesa messianica dunque è un significato del tutto nuovo, partorito dalla mente dell'antifonista; l'idea è tanto originale che non si trova traccia di essa neanche nei padri, certo la regalità del Cristo era nota ma mai per così dire esplicitata in un senso particolare.
È doveroso tuttavia notare che il senso della regalità in Israele è molto preciso, il monarca è visto come un servo del Signore e se «l'Eterno protegge i forestieri, solleva l'orfano e la vedova»15 il ruolo del sovrano dovrà essere analogo a quelle che sono le priorità di Dio. Essere vicario di Dio in questa funzione significa riconoscersi come un ministro al servizio di un superiore, un amministratore e niente di più. Purtroppo assai raramente questa vicarietà sarà espressa in maniera corretta, anzi, l'esempio dato dai re d'Israele è quasi sempre fallimentare, per ogni re si potrebbe trovare il frutto particolare di un determinato vizio eppure, ciò nonostante, il Signore accontenta la richiesta del suo popolo. Leggiamo infatti: «Quando Samuele fu vecchio, stabilì giudici di Israele i suoi figli. Il primogenito si chiamava Ioèl, il secondogenito Abià; esercitavano l'ufficio di giudici a Bersabea. I figli di lui però non camminavano sulle sue orme, perché deviavano dietro il lucro, accettavano regali e sovvertivano il giudizio. Si radunarono allora tutti gli anziani d'Israele e andarono da Samuele a Rama. Gli dissero: “Tu ormai sei vecchio e i tuoi figli non ricalcano le tue orme. Ora stabilisci per noi un re che ci governi, come avviene per tutti i popoli”.
Agli occhi di Samuele era cattiva la proposta perché avevano detto: “Dacci un re che ci governi”. Perciò Samuele pregò il Signore. Il Signore rispose a Samuele: “Ascolta la voce del popolo per quanto ti ha detto, perché costoro non hanno rigettato te, ma hanno rigettato me, perché io non regni più su di essi. Come si sono comportati dal giorno in cui li ho fatti uscire dall'Egitto fino ad oggi, abbandonando me per seguire altri dèi, così intendono fare a te. Ascolta pure la loro richiesta, però annunzia loro chiaramente le pretese del re che regnerà su di loro”»16.
Il Re è concesso a un popolo stolto quasi suo malgrado eppure a Israele Dio concede un re.
Il rapporto fra Dio e i sovrani sarà sempre teso, per così dire, dal momento in cui i secondi talvolta, presi dal delirio umano, non sempre riconosceranno il ruolo di vicarietà, anzi; un episodio significativo ci è dato dalla vicenda di Davide e dalla sua pretesa di edificare il Tempio. «Il re Davide, quando si fu stabilito nella sua casa, e il Signore gli ebbe dato riposo da tutti i suoi nemici all’intorno, disse al profeta Natan: “Vedi, io abito in una casa di cedro, mentre l’arca di Dio sta sotto i teli di una tenda”. Natan rispose al re: “Va’, fa’ quanto hai in cuor tuo, perché il Signore è con te”.
Ma quella stessa notte fu rivolta a Natan questa parola del Signore: “Va’ e di’ al mio servo Davide: ‘Così dice il Signore: Forse tu mi costruirai una casa, perché io vi abiti? Io ti ho preso dal pascolo, mentre seguivi il gregge, perché tu fossi capo del mio popolo Israele. Sono stato con te dovunque sei andato, ho distrutto tutti i tuoi nemici davanti a te e renderò il tuo nome grande come quello dei grandi che sono sulla terra. Fisserò un luogo per Israele, mio popolo, e ve lo pianterò perché vi abiti e non tremi più e i malfattori non lo opprimano come in passato e come dal giorno in cui avevo stabilito dei giudici sul mio popolo Israele. Ti darò riposo da tutti i tuoi nemici. Il Signore ti annuncia che farà a te una casa.
Quando i tuoi giorni saranno compiuti e tu dormirai con i tuoi padri, io susciterò un tuo discendente dopo di te, uscito dalle tue viscere, e renderò stabile il suo regno. Io sarò per lui padre ed egli sarà per me figlio.
La tua casa e il tuo regno saranno saldi per sempre davanti a me, il tuo trono sarà reso stabile per sempre’»17. Davide ha la pretesa di edificare una casa al Signore, la sua promessa è pia in apparenza ma nasconde un incomprensione profonda del suo ruolo che porta inevitabilmente al rovesciamento di quelli che sono gli altri suoi ruoli. Dio pone subito in chiaro i fatti ricordando a Davide le sue origini, è il signore che lo ha scelto e alla fine è il signore che edificherà la dimora d'Israele e non viceversa. Re d'Israele infatti è Dio e nessun altro.
C'è tuttavia un episodio in cui l'Antico Testamento ci presente un Sovrano in chiave pienamente positiva, ma andiamo con ordine.
Notiamo che l'antifona introduce l’idea dell'universale regalità di Dio, questa compare già nei Salmi, dove infatti troviamo scritto: «terribile è il Signore, l'Altissimo, grande re su tutta la terra. […] Perché Dio è re di tutta la terra, cantate inni con arte. Dio regna sulle genti, Dio siede sul suo trono santo»18. Il trono di Dio è identificato nel tempio, come si è detto, ma all'interno di questa particolarità traspare un'universalità del dominio divino. Quando l'antifona cita «Re delle Genti» trae il germe di questa regalità da un altro testo profetico tratto dal libro di Aggeo che parla della ricostruzione del tempio poco dopo l’esilio. In modo particolare l’antifona cita Aggeo dove leggiamo: «ancora un poco e scuoterò il cielo e la terra, il mare e il deserto; smuoverò tutte le genti e verrà il desiderato di tutte le genti, e riempirò questa casa di gloria, dice il Signore delle schiere»19.
Nel Nuovo Testamento la regalità è attribuita più volte a Cristo. Gesù estende la signoria su tutte le nazioni, si tratta di una regalità che si manifesta in opposizione alla regalità del modo, egli per non essendo chiamato, consustanziale al Dio Padre qual è, a una regalità piena eppure non si oppone alla realizzazione della vicarietà a cui erano chiamati i sovrani d'Israele e anzi la realizza pienamente e ce da una scena nella lavanda dei piedi e nella morte di croce che non a caso diciamo vicaria, vicaria perché fu al posto dell'umanità, che doveva pagare, ma che lo rivelò appunto per quel che è: vicario. Nel suo dare la vita per l’umanità Gesù si mostra quale re ed è quindi detto «testimone fedele, il primogenito dei morti e il sovrano dei re della terra»20, il «Re delle genti» che ha compiuto opere grandi e mirabili21, il «Re dei secoli»22 e il «Re dei re e Signore dei signori»23. questa stessa regalità appare anche nell'irrisione dei Romani che lo dicono re per beffa. La stessa condanna a morte in croce è letta dagli ebrei come la conseguenza della sua pretesa di farsi re, ma i giudei, nella loro perfidia, non considerarono la regalità come spettante a Dio ma si prostituirono a Cesare.
La regalità di Cristo è tanto vera che innanzi a Pilato Egli non la smentisce ma anzi puntualizza e chiarisce in cosa consti tale sovranità, a chi lo interroga «Tu sei il re dei Giudei?» risponde «Tu lo dici»24, regalità che non è di questo mondo25.
I soldati che lo percuotono non di meno e lo deridono lo rivestono dei segni di una regalità umiliante il manto di porpora e la corona di spine, mentre lo apostrofano: «salve re dei Giudei!»26 eppure nella figura del nazareno, umiliato e legato, coperto di porpora e con tra le mani uno scettro di canna traspare un progressivo abbassamento di quella dignità che la sua natura gli vorrebbe corrisposta e si comprende più chiaramente cosa intenda l'apostolo quando afferma che «Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso,assumendo la condizione di servo e divenendo simile agli uomini. Apparso in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e alla morte di croce. Per questo Dio l’ha esaltato e gli ha dato il nome che è al di sopra di ogni altro nome; perché nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra;e ogni lingua proclami che Gesù Cristo è il Signore, a gloria di Dio Padre»27. Già altrove si è detto come la stessa iscrizione affissa sulla croce, e che avrebbe voluto essere di scherno, nasconda in realtà l'implicito annuncio della gloria di Cristo e , quale ineffabile e imperscrutabile disegno della Grazia, innanzi a chi lo voleva morto si palesa, in quel momento, su quel patibolo, la più alta delle glorie «Gesù il Nazareno, il re dei Giudei» onde lo sdegno de sacerdoti e la ritrosia dei giudei.
Eppure fu quello stesso popolo che gridava all'ingresso in Gerusalemme «Osanna! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Benedetto il Re di Israele»28 e che invece al Litostrato si muta nell'insistente, martellante richiesta della crocifissione e ancora nel momento della croce diventa rifiuto e derisione «e dicendo: 'Tu che distruggi il tempio e in tre giorni lo ricostruisci, salva te stesso; se sei il Figlio di Dio, scendi giù dalla croce!'. Similmente, anche i capi dei sacerdoti, con gli scribi e gli anziani, facendosi beffe, dicevano: 'Egli ha salvato gli altri e non può salvare se stesso; se è il re d'Israele, scenda ora giù dalla croce e noi crederemo in lui; egli si è confidato in Dio; lo liberi ora, se veramente lo gradisce, poiché ha detto: "Io sono il Figlio di Dio'»29. quel desiderio espresso per scherno sarà realizzato nel giorno della resurrezione, nell’evento della Pasqua, la croce e il risorto, un unico mistero che palesa la regalità d'Amore di Dio, «Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell'unigenito Figlio di Dio»30.
Si tratta di una regalità paradossale che contrasta con l’attesa di Israele di un Messia che fosse una guida politica e militare e che potesse liberarlo dalla dominazione romana. Tuttavia Gesù non è semplicemente “re dei Giudei”, ma “re di tutte le genti”, egli è il nuovo Davide che porta a compimento la promessa fatta a Davide che tutte le nazioni lo serviranno. Nell’inno della lettera ai Filippesi S. Paolo affermerà la sovranità di Gesù su ogni cosa: «nel nome di Gesù ogni ginocchio si pieghi nei cieli, sulla terra e sotto terra»31, e quindi su ogni uomo e ogni popolo. Quindi Gesù è re universale proprio per il dono della sua vita per tutti.
Infine, tornando all’antifona e al titolo che segue (“…desiderato dalle genti”, letteralmente “desiderato da loro”), tale titolo si può applicare a Gesù in modo indiretto. Infatti Erode “desidera” vedere Gesù32, ma soprattutto Gesù stesso dice ai suoi discepoli: “Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate , ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono"33: il “desiderato” dai profeti e dai re si offre ai discepoli, nel dono incondizionato di sé.
Si è parlato di un re positivo nell'Antico Testamento, un re che si presenta come modello da imitare e che quindi si Discosta da quanto fin qui detto di quelle figure umane, troppo umane, a cui Israele era abituato e che comunque rimpiangeva.
Leggiamo: «Quando Abram fu di ritorno, dopo la vittoria su Chedorlaomer e dei re che erano con lui, il re di Sodoma gli uscì incontro nella Valle di Save, cioè la Valle del re.
Intanto Melchisedec, re di Salem, offrì pane e vino: era sacerdote del Dio altissimo e benedisse Abramo con queste parole: "Sia benedetto Abramo dal Dio altissimo, creatore del cielo e della terra,e benedetto sia il Dio altissimo, che ti ha messo in mano i tuoi nemici»34.
Melchisedec è un personaggio misterioso, poco, anzi pochissimo, si sa di lui. Egli non è un membro del popolo ebraico, non fa parte del seguito di Abramo. Di lui nella lettera agli ebrei leggiamo: «Questo Melchìsedek infatti re di Salem, sacerdote del Dio Altissimo, andò incontro ad Abramo mentre ritornava dalla sconfitta dei re e lo benedisse; a lui Abramo diede la decima di ogni cosa; anzitutto il suo nome tradotto significa re di giustizia; è inoltre anche re di Salem, cioè re di pace. Egli è senza padre, senza madre, senza genealogia, senza principio di giorni né fine di vita, fatto simile al Figlio di Dio e rimane sacerdote in eterno»35 e ancora: «Or dunque, se la perfezione fosse stata possibile per mezzo del sacerdozio levitico - sotto di esso il popolo ha ricevuto la legge - che bisogno c'era che sorgesse un altro sacerdote alla maniera di Melchìsedek, e non invece alla manieradi Aronne? Infatti, mutato il sacerdozio, avviene necessariamente anche un mutamento della legge. Questo si dice di chi è appartenuto a un'altra tribù, della quale nessuno mai fu addetto all'altare. È noto infatti che il Signore nostro è germogliato da Giuda e di questa tribù Mosè non disse nulla riguardo al sacerdozio»36. Il sacerdozio di Melchisedec è superiore a quello di Aronne, abbiamo già detto in altri luoghi come il sacerdozio levitico fosse sorto dalla necessità di Israele di una redenzione rinnovabile, affinché cioè le innumerevoli colpe e infedeltà di quel popolo trovassero un lavacro, ma questo rito non era che prefigurazione e realtà parziale di ciò che doveva avvenire. Egli è superiore ad Abramo che ne riconosce l'autorità e gli offre la decima. Afferma sant'Ambrogio «chi è Melchisedec, re di giustizia? Un semplice uomo può essere re di Giustizia? Chi è se non la Sapienza di Dio?» sappiamo che il Creato porta il sigillo del proprio creatore e non di meno lo specchio che quanto ci circonda costituisce non riflette in modo perfetto l'origine prima pur essendone inevitabilmente segno e pur suscitando l'analogia infatti afferma Paolo: «le perfezioni invisibili di lui, la sua eterna potenza e divinità, si vedono chiaramente sin dalla creazione del mondo, essendo intese per mezzo delle opere sue; ond’è che essi sono inescusabili, perché, pur avendo conosciuto Iddio, non l’hanno glorificato come Dio, né l’hanno ringraziato; ma si son dati a vani ragionamenti, e l’insensato loro cuore s’è ottenebrato. Dicendosi savi, son divenuti stolti, e hanno mutato la gloria dell’incorruttibile Iddio in immagini simili a quelle dell’uomo corruttibile, e d’uccelli e di quadrupedi e di rettili»37. una certa gloria del Dio unico è conoscibile ma non senza deformazione, l'atto di rivelarsi di Dio è da indentersi come necessario alla comprenzione retta dell'uomo. Ora, se Melchisedech non era ebreo come è possibile poter affermare che egli fosse sacerdote del Dio altissimo? Per ora basterà riportare le parole di Cristo e lo stupore degli ebrei
«Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò».Gli dissero allora i Giudei: 'Non hai ancora cinquant'anni e hai visto Abramo?'.Rispose loro Gesù: 'In verità, in verità vi dico: prima che Abramo fosse. Io Sono'»38
Riguardo questo fatto afferma Ireneo, più moderatamente: «'Abramo ebbe fede in Dio e ciò gli fu accreditato come giustizia' (Rm 4,3) […] E siccome Abramo era profeta e vedeva con lo Spirito il giorno della venuta del Signore e il disegno della Passione, cioè la salvezza per lui stesso e per tutti quelli che crederanno in Dio, ha esultato di grande gioia. Cristo Signore non era dunque sconosciuto ad Abramo, in quanto desiderava conoscere il suo giorno. Ed è perché istruito dal Verbo che Abramo ha conosciuto anche il Padre del Signore ed ha creduto in lui… Perciò diceva: ‘Alzo la mano davanti al Signore, il Dio altissimo, creatore del cielo e della terra’ (Gen 14,22)»39. )» 40, ma forse è il caso di dire di più su questo personaggio. Si sarà notata l'importanza che gli viene attribuita dalla lettera agli ebrei che sottolinea alcune sue caratteristiche così peculiari da apparire più che una semplice prefigurazione, di certo c'è solo il fatto che in Melchisedec confluisco e la figura regale e quella sacerdotale e che entrambe appaiono insieme solo e soltanto nello Cristo.
L’antifona introduce poi un altro tema quello della “pietra angolare”. La scrittura l’idea di “pietra angolare” è collegata alla pietra di fondamento di una costruzione, e spesso fa riferimento alla costruzione per eccellenza vale a dire il Tempio, come ad esempio in: «Pertanto così dice il Signore Dio: "Ecco, io pongo una pietra in Sion, una pietra scelta, angolare , preziosa, saldamente fondata: chi crede non si turberà» . Paolo si rifarà con molta probabilità nella lettera agli efesini dalla quale possiamo a ragione credere che venga l'ispirazione per questo passo della al quale con ogni probabilità fa riferimento l’antifona. È infatti in questo passo che troviamo esplicitata l'affermazione secondo la quale Cristo è la pietra angolare che unisce in se stesso il popolo dei giudei e dei gentili. Si tratta di una novità non completamente accettate dalla comunità più intransigente di Gerusalemme e che costerà i primi problemi interni al seno ecclesiale. Cristo unisce e questa azione non può esser sminuita egli getta le basi, è fondamento di una e una sola chiesa che in se abbraccia la moltitudine delle nazioni. «Cristo Gesù, essendo lui stesso la suprema pietra angolare» non è separabile da quanto compie e da quanto sarà edificato per sua volontà e sul suo esempio. In cui tutto l'edificio della Chiesa cresce ben ordinato. Poi l’antifona rimanda a, tradotto qui letteralmente: «Ma ora, in Cristo Gesù, voi che un tempo eravate lontani, siete stati avvicinati per mezzo del sangue di Cristo. Egli infatti è la nostra pace, colui che ha fatto dei due popoli uno e ha demolito il muro di separazione, avendo abolito nella sua carne l'inimicizia, la legge dei comandamenti fatta di prescrizioni, per creare in se stesso dei due un solo uomo nuovo, facendo la pace, e per riconciliare ambedue con Dio in un sol corpo per mezzo della croce, avendo ucciso l'inimicizia in se stesso. Ed egli venne per annunziare la pace a voi che eravate lontani e a quelli che erano vicini, poiché per mezzo di lui abbiamo entrambi accesso al Padre in uno stesso Spirito» ; le due ultime voci sono neutre, in greco come in latino, e segnano due entità, la pagana e la giudaica: Cristo ha abbattuto ogni differenza per cui «Non c'è più giudeo né greco; non c'è più schiavo né libero; non c'è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» .
Cristo è considerato la pietra angolare che in quanto pietra d'inciampo e scandalo va intesa unita con i canti dl Servo in Isaia e allo stesso tempo come fondamento che unisce e da cui nascono scontri di incomprensione, infatti «Chi dunque mi riconoscerà» dice il Signore «davanti agli uomini, anch'io lo riconoscerò davanti al Padre mio che è nei cieli; chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch'io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli. Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada. Sono venuto infatti a separare il figlio dal padre, la figlia dalla madre, la nuora dalla suocera: e i nemici dell'uomo saranno quelli della sua casa» .
L'ultima parte dell'antifona, come ormai è noto, ci rimanda alla condizione dell'uomo in quanto misero re decaduto, direbbe Pascal, infatti leggiamo: «salva l'uomo che hai formato dalla terra» il che ci rimanda subito al racconto della Genesi, il fatto che non si legga per esempio «su cui hai soffiato la vita» è sicuramente una scelta ben all'antifonista è ribadire la materialità caduca del corpo umano, destinato alla morte e macchiato dal peccato. La carne assunta dal Cristo e mostrataci nella notte del Natale sottolinea l'abbassamento del Verbo di Dio e ne indica la missione salvifica. Il fatto che l'atto creativo sia detto del Figlio e non del padre non deve stupire tale credenza era infatti affermata da molti padri fra i quali Clemente di Alessandria che scriveva: «A me pare ponderata, quel che infatti preme che sia proprio lui [Gesù Cristo] che prima di tutto ha plasmato l'uomo con fango, che lo ha poi rigenerato per l'acqua e che lo ha fatto crescere per lo Spirito» e lo stesso ireneo afferma Ireneo spiegava nel suo trattato Contro le eresie che:«L'uomo plasmato all'inizio per le mani di Dio, che sono il Figlio e lo Spirito, è stato fatto a immagine e a somiglianza di Dio» . l'antifona sottolinea la comune sorte di ogni uomo, tutti macchiati, tutti mortali e limitati, tutti nessuno escluso, tutti creati dalla stessa argilla e destinati a tornare a questo quando l'ultimo alito vitale abbandona il corpo quindi tutti destinati alla redenzione, all'atto di salvezza operato dal Cristo. È nella croce che Cristo si mostra re e sovrano di grazie, é nella redenzione dell'intero umano genere che comprendiamo la sua sovranità universale infatti afferma l'Apostolo: «Non c'è nessun giusto, nemmeno uno, non c'è sapiente, non c'è chi cerchi Dio! Tutti hanno traviato e si son pervertiti; non c'è chi compia il bene, non ce n'è neppure uno. La loro gola è un sepolcro spalancato, tramano inganni con la loro lingua, veleno di serpenti è sotto le loro labbra, la loro bocca è piena di maledizione e di amarezza. I loro piedi corrono a versare il sangue; strage e rovina è sul loro cammino e la via della pace non conoscono. Non c'è timore di Dio davanti ai loro occhi. (...)Ora invece, indipendentemente dalla legge, si è manifestata la giustizia di Dio, testimoniata dalla legge e dai profeti; giustizia di Dio per mezzo della fede in Gesù Cristo, per tutti quelli che credono. E non c'è distinzione: tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia, in virtù della redenzione realizzata da Cristo Gesù» .