La pratica della penitenza è da millenni praticata nella Chiesa, e anche prima di Cristo, nell’Antico Testamento, si trovano molti riferimenti riguardo rinunce a parti del proprio come offerta a Dio.
Interessante per comprendere la ratio che muove il cristiano al digiuno o ad altre forme di rinuncia è la concezione dello shabat ebraico: l’ultimo giorno della settimana in cui l’uomo si distoglieva dalle proprie occupazioni e si recava al tempio per la preghiera. Il giorno di riposo non era però per gli ebrei solamente un giorno in cui riprendersi dalle fatiche del lavoro; era un giorno simbolico della centralità di Dio nella propria vita: nel giorno di sabato cessavano tutti i propri lavori per riconoscere che l’uomo non è causa di sé stesso, che non è un essere auto-nomo, sufficiente a sé stesso, ma che necessita di Dio. Il riposo dello shabat significa riconoscere Dio come unico datore di ogni bene e quindi relativizzare il proprio lavoro per mettere al centro i doni di Dio per l’uomo.
Similmente i cristiani possono intendere il digiuno: ciò che l’uomo si è procurato con il proprio lavoro viene messo da parte, viene accantonato per far posto a Dio come cardine e centro della propria vita. Si tratta di un “riordinamento” delle priorità: riconoscere come secondari rispetto a Dio i beni materiali; porre il proprio “io”, il proprio benessere, la propria comodità, la propria agiatezza in secondo piano rispetto a Dio.
L’uomo, mediante la penitenza (che può essere il digiuno come altre forme di rinuncia) imita Cristo sulla Croce che abbandona tutto sé stesso al Padre donandogli tutta la propria vita. Il “sacrificio perfettissimo” è infatti il martirio, mediante il quale l’uomo partecipa della stessa morte di Cristo, come riportano gli Atti dei martiri riguardo Felicita, che stava per partorire poco prima di essere gettata nell’arena in pasto alle belve a causa della sua fede in Cristo in epoca di persecuzione sotto i romani: «Ella soffriva per il parto assai difficile, e uno dei servi addetti alla custodia le chiese: "Se ora ti lamenti così, che cosa farai quando sarai gettata alle fiere che hai disprezzato, quando ti sei rifiutata di sacrificare?" Ella rispose: "Ora sono io a soffrire: là ci sarà un Altro in me che patirà per me, perché io patisco per lui"»1. Come afferma san Paolo infatti: «se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui» (Rm 6, 8).
Tuttavia l’uomo, pur non essendo sottoposto al martirio, partecipa – seppur in misura minore – delle sofferenze di Cristo sulla Croce mediante le mortificazioni personali, espressioni della propria oblazione, dell’olocausto, dell’offerta della propria vita per Dio. Queste possono avere la propria causa in altri, come quando i cristiani vengono perseguitati per la loro fede, o in sé stessi, come quando il cristiano decide di sua spontanea volontà di privarsi di qualcosa di lecito per offrire questa rinuncia a Dio.
È evidente quindi che il sacrificio cristiano non ha niente a che vedere con la concezione pagana della “propiziazione del divino”: Dio è già propizio all’uomo nella sua misericordia. Il sacrificio cristianamente inteso non è utile a Dio (infatti cosa potrebbe mai fare l’uomo per meritare Dio?), ma all'uomo stesso; riordina la vita orientandola verso l’unico bene degno di essere chiamato tale: Dio.