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L'uomo di fronte alla domanda sul mistero della morte

26 Oct
7 minuti di lettura
Venerdì 22 ottobre 2021 si è tenuto l’incontro organizzato dalla Scuola Teologica Diocesana don Pietro Lombardini con la Cattedra di Teologia Fondamentale della Pontificia Università Lateranense e tenuto dal prof. Giuseppe Lorizio. Teologia Spicciola ne propone qui, in forma scritta, alcuni passaggi:

La morte ci mette di fronte non solo al mistero dell’uomo, ma anche al mistero di Dio, perché il mistero di Dio e il mistero della morte hanno qualcosa che li accomuna. Vladimir Jankélévitch, autore di matrice ebraica, in La morte, afferma che «la morte è la metafisica anche di chi nega la metafisica». Di fronte al mistero della morte diventiamo tutti metafisici, perché siamo portati ad andare oltre: dal greco metà tà physiká, ovvero andare oltre l’aspetto meramente materiale dell’esistenza. Siamo chiamati ad interrogarci nonostante il fatto che c’è stata e c’è ancora una tendenza, nella nostra cultura occidentale sofisticata e – dicono alcuni – tecnocratica, a rimuovere la morte. Perciò si dice che la morte è diventata un tabù. Se prima il tabù era il sesso, ora è la morte.


Insieme alla morte, si verifica un’ospedalizzazione anche della nascita: c’è un ritenere questi eventi dell’esistenza, che dovrebbero avere una valenza naturale, come qualcosa di “malato”, di collegato alla malattia. A volte trattiamo le persone che aspettano un bambino come se fossero malate, e le portiamo in ospedale a partorire, così come ci portiamo le persone malate che riteniamo essere giunte alla fine della loro esistenza.

C’è un «oblio della morte», questo tentativo di rimuoverla, perché la morte ci provoca e ci trova sempre e comunque impreparati. Un tempo c’erano i percorsi di preparazione alla morte. Sant’Alfonso scrisse l’Apparecchio alla morte.

In passato c’era una modalità di pensare e vivere la morte che la innestava nell’esistenza; non la rimuoveva. C’era la necessità di prepararsi alla morte. Non saremo mai pienamente preparati, ma pensarci ci aiuta: pensare la morte come una soglia.

Socrate sa che c’è un’altra vita, e pensa addirittura che l’altra vita sia migliore di questa, e perciò invita i suoi discepoli, nel Fedone e nel Critone, che sono dei dialoghi sulla morte, a non lamentarsi e a non piangere, e – una volta che lui sarà morto – a sacrificare un gallo al dio Esculapio, il dio della medicina. A questo dio venivano sacrificati i polli in seguito alla guarigione da una malattia. Evidentemente a questo dio piacevano i polli. Allora Socrate dice ai suoi: ora che muoio, io guarisco dalla malattia della vita, quindi andate al tempio di Esculapio e sacrificategli un bel pollo.

Noi non pensiamo che la vita sia una malattia, anche se sappiamo che questa fa parte della vita. Noi pensiamo, con Socrate, che esiste un oltre che si dà con la morte. La morte, per noi, è quindi una «soglia». Durante la messa dei defunti, il Prefazio recita: «Ai tuoi fedeli, signore, la vita non è tolta, ma trasformata, e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nei cieli». La morte dunque è una metamorfosi, una trasformazione, ed è a questa trasformazione che ci dobbiamo preparare. Ci sono molti momenti di trasformazione nella nostra esistenza, l’ultimo dei quali sarà la morte. Ogni trasformazione, però, prevede un distacco.

Franz Rosenzweig affermava che si muore tre volte: la prima volta quando si nasce, perché con la nascita si inizia a morire, con il distacco dal grembo materno, che è un trauma. Il bambino nasce piangendo. Poi c’è il distacco della pubertà, cioè quando si scopre di essere sessuati, che non si è tutto, che manca qualcosa: se sei uomo non sei donna, e se sei donna non sei uomo, e dunque anche questo è vissuto come un distacco, come una solitudine. Infine, c’è l’ultimo distacco, al quale siamo tutti chiamati, perché la morte è questo: una livella che ci dice l’uguaglianza della condizione umana.

Non è detto che sia sempre e comunque prevedibile il quando e il come: «mors certa, ora incerta». Questa è la condizione umana: una certezza e un’incertezza. La certezza del fatto che tutti dobbiamo morire, e un’incertezza sul modo e sull’ora, e questo è umano. Chi ha la certezza dell’ora e del modo di morire sono il suicida ed il condannato a morte, che sono entrambe condizioni disumane. Ecco perché siamo contro la pena di morte, contro il suicidio e, anche, contro l’eutanasia, qualsiasi nome questa assuma, addirittura «suicidio assistito».

Con Friedrich Schelling possiamo dire che l’inizio e la fine dell’esistenza sono nel mistero: non ci appartengono. Non ci appartiene l’inizio perché non abbiamo scelto se nascere, come nascere, dove nascere. Il perché è da scoprire, ma intanto siamo nati. Nei momenti critici, l’adolescente inquieto e angosciato, rivolgendosi ai genitori, dice: «Perché mi avete messo al mondo?», e il genitore deve rispondere, e deve rispondere che è nato per amare ed essere amato perché è nato da un atto di amore, e non per egoismo di qualcosa che a volte viene chiamato «diritto di avere figli».

L’inizio e la fine sono nel mistero, e questa tentazione di essere padroni della vita e della morte è una tentazione diabolica: «Sarete come Dio», dice il Serpente ad Eva. Vogliamo essere Dio, ma come è stato detto da don Gino Rigoldi ad un noto politico: «Dio esiste, ma non sei tu. Rilassati». Questa tentazione ci porta a perdere il senso del mistero, a perdiamo anche il senso dell’immortalità, per cui la domanda forse va cambiata: non più «cosa c’è dopo la morte?» ma «chi c’è dopo la morte?». Quel «chi» significa: cosa resta di me dopo la morte? Cosa c’è in me di eterno? E degli altri, chi c’è dopo la morte? Dio?
Fonte: YouTube

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